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Motoblob: i manga

il 15/01/2004 in Moto & Scooter

I cartoni giapponesi hanno segnato più di una generazione. Oltre a orfanelli e alabarde spaziali, però, c’era spazio anche per le moto

Motoblob: i manga
Katsuhiro Otomo, il geniale ideatore di Akira

Il nome di Katsuhiro Otomo probabilmente non vi comunica nulla. No, non è un pilota, né un team manager, e nemmeno un pezzo grosso di qualche casa giapponese. È un mangaka, cioè un fumettista nipponico: a lui si deve Akira, forse il più grande capolavoro degli ultimi vent’anni in questo campo, opera dalla quale è tratto il film d’animazione (o, propriamente, anime omonimo): una storia fantascientifica avvincente, ambientata nel Giappone del 2030.

Akira è un bambino dagli enormi poteri ESP, paranormali, insomma. Poteri così terribili da mettere in pericolo la sicurezza dell’intero pianeta, e da far sì che, in misura cautelativa, il giovane debba essere tenuto sotto terra. Ok: che c’entra parlare di cartoni in un sito di moto? E poi, perché proprio di questo anime in particolare?


Beh, provate ad aprire una rivista di settore (motonline.com compresa, ovviamente), a leggere una prova, una descrizione di una moto sportiva o di un maxi-scooter. Troverete che i miei colleghi, per raccontare il design di una motocicletta o di uno scooter, utilizzano sempre più spesso espressioni tipo: “fumettistico”, “da cartone giapponese”. I più introdotti, quelli che appartengono alla cosiddetta Goldrake Generation (come il sottoscritto, born in 1977) addirittura si servono di locuzioni tipo: “da manga” o “da Mazinga”.

Ma c’è qualcosa di sensato in queste affermazioni, o è solo voglia di stabilire una connessione in realtà inesistente, tra moto e cultura popolar-giovanilistica? Ebbene sì, la vicinanza c’è, i due mondi si sono influenzati vicendevolmente: molti disegnatori di robottoni & co. sono stati attratti dal mondo della motocicletta, e parecchi designer sono stati influenzati dal mecha design, ovvero dall'estetica dei lavori di animazione giapponesi a sfondo fantascientifico.

Dunque, veniamo al concreto e torniamo ad Akira, anzi, al vero protagonista del film, il giovane “scavezzacollo” Kaneda: la sua moto è di gran lunga la più famosa del mondo dei cartoni.
In realtà non è proprio una motocicletta, ma una sorta di lunghissimo e avvolgente scooter. La seduta è distesa, quasi da custom, ma si tratta senza dubbio di una supersportiva. Per enfatizzare il più possibile questo tratto (forse anche per raggranellare qualche yen di pubblicità?), la rossa carrozzeria è costellata di adesivi di marchi giapponesi del settore tecnologico o motociclistico: Citizen, Canon, Arai e Shoei (la contemporanea sponsorizzazione di due acerrimi concorrenti come questi ultimi sarebbe – in realtà - quantomeno improbabile su qualsiasi motocicletta da gara; la grossa ala dorata sulla carena fa intendere che la moto di Kaneda è una Honda.


Il concetto di questo mezzo è affascinante: qualcuno ci ha fatto addirittura una tesi di laurea, nel mondo esistono parecchi progetti di costruirne una replica, e alcuni esemplari sono già in avanzata fase di realizzazione. L’autore dell’opera non dà spiegazioni, ma le ipotesi degli appassionati sono molte: qualcuno suppone che la moto monti due propulsori (magari uno elettrico), che trasmettano, indipendentemente, la potenza, uno alla ruota anteriore, uno a quella posteriore.


L’idea più convincente, però, pare quella di un motore unico in posizione posteriore e di una trazione integrale. Fantasie degli studenti di design e ipotesi di riproposizione da parte di privati a parte, chi davvero ha stupito il mondo con qualcosa di simile in modo impressionante alla due ruote dell’eroe di Akira, è stata Suzuki all’ultimo Salone di Tokyo (e dove, senno?) col G-Strider. Agli appassionati di anime già il nome ricorda un altro famoso cartone, il Trider G7, uno dei robot più famosi.


L’incredibile maxi-scooter proposto dalla Casa di Hamamatsu è reale, e tranquillamente producibile in serie: monta cerchi da 17 e 18 pollici dalle enormi coperture Bridgestone (140 davanti, 220 dietro), e soprattutto un motore (916 cc) che, in cilindrata inferiore, esiste già: il bicilindrico parallelo del Burgman 650. Così come esiste già la trasmissione automatica-sequenziale che lo equipaggerebbe.


Credo sia interessante notare come i mangaka giapponesi siano stati attratti dal design italiano. I nipponici difficilmente hanno vie di mezzo. Adorano il vintage almeno quanto il futurismo, e comunque in generale stravedono per il Made in Italy. A parte il discorso eminentemente commerciale, per cui, ad esempio, le Ducati sono richiestissime a Tokyo e dintorni, è da sottolineare l’impatto del nostro design industriale (soprattutto quando è fortemente caratterizzato) sull’immaginario collettivo del Sol Levante. Manga e anime sono lo specchio per eccellenza di quest’immaginario, almeno quanto lo sono, da noi, i talk show, le fiction e la musica pop.
Per questo, mentre da noi Diabolik viaggiava su una lussuosa Jaguar E, il mitico Lupin III (il simpatico ladro ideato dal giapponese Monkey Punch) si spostava a bordo di una Fiat 500 gialla.

Simile il destino del Dr. Slump, lo scienziato creatore dell’imprevedibile robottina Arale (tradotto in italiano il nome significa “Fagiolino”), che si spostava su una tondeggiante Autobianchi A112.
Quanto alle moto, indimenticabile la Bimota Tesi, riconoscibile per la particolare sospensione anteriore orizzontale, guidata da un’ammiccante fanciulla nuda (che scatena tempeste ormonali nel giovane protagonista) nella recente serie Golden Boy.

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